È la responsabilità che ci uccide. Il lato umano del personale ospedaliero che ogni giorno piange
È la responsabilità che ci uccide. Il lato umano del personale ospedaliero che ogni giorno piange
Argomento
Trama
“È la responsabilità che ci uccide”, così parte il video in oggetto, testimonianza di altissimo impatto emotivo del primo lockdown nazionale. A pronunciare queste parole, in lacrime, è un medico dell’ospedale Maggiore di Parma che, insieme ad uno specializzando del Politecnico di Milano, una fisioterapista dell’Ospedale di Lodi, un volontario della Croce Rossa di Brescia e ancora infermieri, psicologi, operatori e altre figure professionali raccontano le sensazioni, le emozioni quotidiane che sono sostanzialmente e significativamente cambiate a causa soprattutto della situazione pandemica che ancora oggi faticosamente fronteggiamo. Nei mesi di marzo e aprile 2020 in Italia, specialmente negli ospedali del Nord Italia, si assiste ad un’emergenza sanitaria senza precedenti. Tuttavia, nonostante nel video non si faccia riferimento esplicitamente al termine di origine anglosassone, è chiaro che parole come “responsabilità”, “resilienza” e “benessere emotivo”, più volte pronunciate dai soggetti intervistati, sono quel campanellino d’allarme che ci inducono a pensare che il burnout è la sindrome del nostro tempo. Esso, oggi più che mai, interessa le professioni con alto impatto relazionale che implicano un intenso coinvolgimento emotivo, responsabilità morali e stress. Il burnout è a tutti gli effetti una malattia, una sindrome che velocemente si diffonde nei contesti lavorativi che richiedono uno sforzo maggiore, una forte dedizione nei confronti di chi si trova in una situazione di svantaggio, bisogno, aiuto. Nel caso dell’emergenza epidemiologica da Covid-19, il personale sanitario ha dovuto fronteggiare una situazione ad alto rischio in tempi estremamente accelerati scanditi dalla paura e dall’ansia di un virus nuovo, letale, subdolo. Il crollo emotivo è dietro l’angolo e il burnout non si manifesta esclusivamente attraverso momenti di stanchezza, nervosismo ed esaurimento nervoso ma nel contesto sovra citato è soprattutto nella pressione di non avere letti disponibili, nell’ansia di non disporre di bombole d’ossigeno, nella presa in carico di un paziente gravemente malato, è nella paura di assistere ad un sovraccarico del sistema. La paura di dover scegliere “il paziente più giovane”, la paura di trovarsi di fronte a delle priorità che si traducono in età. Le richieste quotidiane rivendicate da questo tipo di lavoro e non solo, consumano, “bruciano” l’energia e l’entusiasmo. Questa importante testimonianza rilancia anche a quella che è la professione dell’assistente sociale che è altresì bersaglio della sindrome da burnout.