Vita in carcere, i bambini della casa famiglia dell'associazione C.I.A.O. Onlus
Vita in carcere, i bambini della casa famiglia dell'associazione C.I.A.O. Onlus
Argomento
Trama
La giornalista Marta Manzo intervista Elisabetta Fontana, Presidente dell’Associazione C.I.A.O Onlus di Milano. Nel 2010, in seguito ad una richiesta da parte delle istituzioni penitenziarie di disponibilità per accogliere donne detenute con i loro bambini, questa associazione è stata riconosciuta quale casa famiglia protetta. Si tratta di una vecchia scuola ristrutturata e adibita all’accoglienza; è di proprietà della parrocchia dei 4 evangelisti di Milano. Al suo interno vi sono tre alloggi per l’autonomia, in ogni alloggio c’è un appartamento completo in condivisione con due persone con i rispettivi bambini ed ha una capienza massima di 6 mamme e 7 bambini. È presente una sala giochi per le attività dei bambini e una sala di condivisione per le attività di incontro con le mamme. La maggior parte di queste donne sono straniere e in stato di detenzione ma hanno la possibilità di accedere ad una misura alternativa al carcere. Non avendo possibilità di lavorare e non avendo riferimento sul territorio ricevono tutto il supporto per il loro mantenimento, come ad esempio la spesa per gli alimenti, le spese mediche. Viene quindi favorito loro l’accesso a tutti i servizi sul territorio, quali il servizio sanitario, il servizio legale, il servizio formativo. Viene garantito loro l’accompagnamento socio-educativo mediante l’appoggio di un educatore e di una psicoterapeuta durante il loro percorso verso l’autonomia. La presenza, all’interno della parrocchia, di questa realtà spinge la comunità cristiana non soltanto ad una solidarietà da lontano ma anche da vicino: una solidarietà caratterizzata da rapporti, da attenzioni e cure. Ciò consente non solo ad una crescita in termini di carità della comunità cristiana ma aiuta anche queste persone a sentirsi collocate all’interno di un contesto più ampio.
Si instaura un legame con le mamme e i loro bambini, difatti per molte di queste l’associazione rappresenta un po’ la loro prima famiglia. Si crea una condivisione sulla famiglia al punto che per i figli degli operatori diviene naturale vivere nella struttura. Infatti, Luca il figlio più piccolo di Elisabetta, descrive l’attività dell’associazione come un posto in cui ci sono persone che hanno commesso qualcosa di brutto ma che sono lì perché vogliono cambiare la loro vita.