Come ri-umanizzare le cure?

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Come ri-umanizzare le cure?

Utenti e operatori, relazioni e sistema sociosanitario. L’intervento conclusivo di Marco Giordano al Convegno online del 27 Ottobre 2021, con Pierpaolo Donati.

Azioni coscienziose

Le pagine del Dizionario di Servizio Sociale dedicate alla Deontologia invitano a riflettere su quanto l’aver cura delle persone richieda, negli operatori, la presenza di una ben chiara coscienza delle loro azioni. Coscienza – precisa il Dizionario – da intendere come piena «consapevolezza del significato etico» e valoriale che tali azioni hanno.[1] Di fronte ad un altro essere umano siamo sempre chiamati a compiere “scelte di valore”, a distinguere ciò che “edifica l’uomo” da ciò che lo “deprime”. È evidente che si tratta di una sfida enorme, che chiama in gioco non solo la nostra dimensione professionale ma anche il senso stesso del nostro essere e del nostro esserci.

<<La vita cresce e matura nella misura in cui la si dona per la vita degli altri>>

 

Il viaggio dell’aver cura

In un tempo nel quale diviene sempre più “di moda” il rifiuto a priori della ricchezza umana e spirituale tramandata attraverso le generazioni, il quesito su cosa realmente edifichi l’uomo e su cosa, invece, lo deprima, è di grandissima portata. Nella lettera enciclica “Fratelli Tutti” pubblicata nell’Ottobre 2020, Papa Francesco segnala con grande preoccupazione la «perdita del senso della storia (… e) la penetrazione culturale di una sorta di “decostruzionismo” per cui (si …) pretende – anche in campo etico e valoriale – di costruire tutto a partire da zero».[2]

In uno scenario di questo tipo, ci avverte il Santo Padre, rischiamo che la nostra attenzione, anche nell’atto dell’aver cura delle persone e dell’accompagnamento verso il loro benessere, si concentri unicamente su dimensioni materiali e auto-centrate, tra le quali facilmente si impongono «il bisogno di consumare senza limiti e l’accentuarsi di molte forme di individualismo senza contenuti».[3]

Libertà ed autonomia

Nei manuali di metodologia del lavoro sociale viene giustamente evidenziato l’obiettivo di accompagnare le persone verso la loro piena autonomia, come espressione del diritto inalienabile di ogni essere umano alla libertà. Ma cosa ce ne facciamo della libertà, una volta che l’abbiamo raggiunta? Nell’aver cura delle persone la sfida è trasmettere loro, non per convincimento ma per attrazione, quanto la vera libertà sia quella che si esprime nella scelta di essere responsabili verso gli altri, a partire dai più deboli.

La prospettiva verso la quale accompagnare le persone a cui ci dedichiamo è che «la vita cresce e matura nella misura in cui la si dona per la vita degli altri».[4] La «persona – diceva Emmanuel Mounieur – esiste solo verso l’altro». Di fronte a questa prospettiva veniamo tutti interrogati su quanto, come operatori della cura, siamo effettivamente testimoni di questa etica della responsabilità, di questa propensione autentica all’altro, nel qui ed ora della relazione.

Quanta bellezza!

Un ulteriore spunto riguarda il modo in cui ci poniamo di fronte alla fragilità. La cultura della performance, di cui siamo tutti ben intrisi, ci vede tutti d’accordo con gli obiettivi di empowerment e di rafforzamento delle capacità e delle energie delle persone a cui ci dedichiamo. Noi tutti, e gli stessi servizi ed enti nei quali operiamo, abbiamo il comune intento di promuovere il maggiore benessere possibile delle persone. Si tratta di un obiettivo importante e di grande spessore. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che nel “viaggio dell’aver cura”, occorre stare attenti a non smarrire il senso e il valore della debolezza.

Condivido con voi alcune provocazioni che ho ricevuto leggendo un interessante libretto pubblicato quest’anno dalle Edizioni Sempre. L’autore si chiama Luca Russo. Con la sua famiglia vive nei pressi di Assisi, in una casa che accoglie bambini affetti da malattie neurologiche gravi. Il titolo del libretto, fortemente evocativo, è: «Quanta Bellezza». E il sottotitolo, più descrittivo, è: «Elogio del corpo fragile e cultura della cura». In questo bel testo, che invito tutti a leggere, l’autore ad un certo punto si interroga su quale sia il peso specifico della vita umana.

Scrive così: «Le persone fragilissime non ridono, non piangono, non vedono, non camminano, non parlano (…) c’è davvero poco da mettere sulla bilancia!». Qual è il loro specifico? Qual è la consistenza e il valore di queste persone apparentemente “senza peso”? È una domanda di assoluta importanza, non rispondere equivarrebbe a perdere il senso dell’aver cura.

Il peso specifico della fragilità

Luca Russo ci offre un’apertura formidabile, che non nasce da studi o teorie, ma da una quotidianità vissuta “facendo famiglia” con questi bimbetti gravemente fragili. Scrivendo una lettera immaginaria ad una delle bambine accolte, le dice: «cara Agnese, hai preteso cure, senza imposizioni. Hai dettato tempi, senza turbamenti. Solo la docilità si addice a colloquiare con te. Non c’è altro modo per rispondere alla tua esagerata debolezza, se non la tenerezza. E come ogni vero dono, non ci risparmi lo scompiglio e lo sconcerto. Ci disorienti, perché sei eccelsa. Scombini programmi e previsioni. Il mio cuore stringi nella tua vita piccola piccola, quasi a trovar riparo, la nostra esistenza nella tua (…)».[5]

Russo ci aiuta a comprendere che: «la storia debole che attraversa la vita di un altro, non lascia mai impassibili»; che «la debolezza inaudita di tante creature ha impugnato i cuori di migliaia di forti, piegandoli alla tenerezza»; che «storie di carrozzine e disabilità, di epilessie, di sondini e di alimentazioni artificiali, attraversando la vita dei “sani”, hanno lasciato strascichi di inedito candore»; che «la condivisione dei forti con i più fragili genera una mistica confusione, per cui i grandi si confondono con i piccoli, in una comunione di differenze che ha il sapore della misericordia».[6] Ecco qui, messi ben in evidenza, i parametri per misurare il peso specifico della fragilità: «la conversione delle vita violente, la purezza del cuore, la misericordia».

Le persone con disabilità psichica, diceva Jean Vanier, fondatore dell’Arca, «cambiano il cuore» di chi le incontra. Di fronte a queste vette elevate, siamo chiamati, come operatori della cura, a porci con silenzioso rispetto dinanzi all’infinito valore di ogni vita umana e a coltivare uno sguardo contemplativo, capace di scrutare tra le pieghe della sofferenza e della fragilità per scorgervi, con meraviglia e stupore, l’infinito tesoro che ci viene donato.

 

Corso FAD https://www.progettofamigliaformazione.it/corsi/cure-fad-base-2021

 

Note:

[1] Canevini Milena Diomede, Deontologia, in Campanini Annamaria (a cura di), Nuovo Dizionario di Servizio Sociale, Carocci, Roma, 2012, p. 193.

[2] Papa Francesco, Fratelli tutti. Lettera enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale, Libreria Editrice Vaticana, Roma, 2020, n. 13.

[3] Idem.

[4] Papa Francesco, Evangelii Gaudium, Libreria Editrice Vaticana, Roma, 2013, n. 10.

[5] Russo Luca, Quanta Bellezza. Elogio del corpo fragile e cultura della cura, Sempre Edizioni, Rimini, 2021, pp. 134-135.

[6] Ivi, p. 58.

Se sei interessato a raccontare la tua esperienza o le tue riflessioni di assistente sociale siamo lieti di pubblicare un tuo articolo sul nostro blog. Per maggiori informazioni contatta la dott.ssa Serena Vitale (redazioneblog@progettofamiglia.org)
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