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Capitale sociale, legami affettivi, stabilità e benessere: il percorso verso l’autonomia degli “out-group”
“Al margine”: tra stigmi e discriminazioni
“Marginalizzare”: il vocabolario Treccani fornisce una definizione alquanto imparziale del termine, indicando con esso la posizione marginale di ciò che in precedenza aveva una funzione centrale. Tuttavia, lo stesso termine, se associato alla condizione sfavorevole di giovani adulti in uscita dalle comunità d’accoglienza, assume un’accezione negativa, che può comportare la nascita di pregiudizi e stigmi.
E. Goffman, sociologo canadese, introduce quella che prende il nome di “Teoria dello stigma”. Quest’ultimo, viene utilizzato per indicare e sottolineare l’inferiorità della persona in questione, considerata diversa. Di conseguenza, s’innesca nell’individuo il timore costante di poter confermare l’idea negativa lui associata. I minori allontanati dalle loro famiglie, allo stesso modo, sono soggetti a due tipi di stigmatizzazione: la prima è legata alla condizione di soggetti svantaggiati; la seconda, invece, è legata al pregiudizio sociale…essi sono considerati “diversi” poiché non vivono in contesti familiari tradizionali.
La discriminazione, derivante dal pregiudizio, può talvolta indurre alla de-umanizzazione, ovvero un meccanismo con il quale vengono negate le caratteristiche della natura umana agli out-group. Riconosciuto lo stato di inferiorità, è molto più semplice, infatti, creare il “distacco” e azzerare ogni forma di empatia.
I care leavers sono spesso posti ai margini della società, privi di legami stabili su cui poter contare. Il “capitale sociale”1 di cui dispongono è minimo, spesso si riduce al rapporto con gli operatori e con il gruppo dei pari. Ancor più limitato è quello che Bourdieu definisce “capitale culturale”, una tipologia di capitale che viene trasmessa dai genitori e che racchiude i valori di appartenenza.
«Se gli individui non sperimentano l’inclusione, finiscono per creare processi molto esclusivi»
Il cammino verso il “successo”
Legami affettivi, stabili e duraturi favoriscono, senza dubbio, la possibilità di raggiungere risultati personali e professionali soddisfacenti. Secondo alcuni studi, ogni giovane adulto che fuoriesce dalla comunità ospitate termina il percorso in modo diverso. Ciò è dipeso da vari fattori come, ad esempio, la scolarizzazione e il benessere psicofisico. In particolare, distinguiamo:
1) Chi esce con successo: ci si riferisce a quei giovani che hanno avuto la possibilità di sperimentare una relazione significativa con almeno un adulto, hanno un buon grado di scolarizzazione e sono riusciti a trarre dei vantaggi dall’aiuto che è stato loro offerto;
2) I sopravvissuti: ci si riferisce a quel gruppo di giovani che non ha raggiunto una stabilità, talvolta per l’improvvisa interruzione dell’affido o dell’ospitalità da parte della comunità. Essi hanno un basso grado di scolarizzazione e, spesso, nessuna qualifica professionale;
3) Chi sta ancora lottando: si tratta di giovani che hanno subito esperienze traumatiche prima del collocamento in comunità e che, successivamente al loro ingresso in queste strutture, hanno affrontato percorsi turbolenti, caratterizzati da vari spostamenti e ricollocamenti che non gli hanno consentito di instaurare legami stabili.
Note:
1 Bourdieu ha definito il capitale sociale come «La somma delle risorse, materiali o meno, che ciascun individuo o gruppo sociale ottiene grazie alla partecipazione a una rete di relazioni interpersonali, basate su principi di reciprocità e mutuo riconoscimento» - P. Bourdieu, “Le capital social - Notes provisoire”, in «Actes de la recherche en sciences sociales», n° 31, 1980.
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