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La casa: luogo intimo o gabbia che rinchiude? (Parte II)
Luoghi o non-luoghi. Ambienti terapeutici e percorsi di accompagnamento.
Un luogo da abitare a cui appartenere
Laddove sia necessario sradicare la persona dalla propria abitazione occorre trovare un luogo che la ospiti e che la faccia sentire “a casa”. Il professore Stefano Petrosino dell’Università La Cattolica di Milano ci ricorda che “L’uomo esiste come uomo in quanto abita un luogo”[1]. Ed è questo concetto di abitare un luogo che va approfondito.
Abitaresignifica “vivere un luogo”, vivere gli spazi in libertà sentendoli nostri e sentendo di farne parte. Da qui il concetto di appartenenza che significa appunto sentirsi parte. Pertanto viene da sé la necessità per ogni persona di avere luoghi da abitare e ai quali appartenere.
«L’uomo esiste come uomo in quanto abita un luogo»
Luoghi o non-luoghi?
Quali sono i luoghi che abitiamo e quali i non-luoghi? I non-luoghi (termine introdotto dall’antropologo Augè) sono spazi che frequentiamo tutti i giorni, come autostrade, mezzi di trasporto, centri commerciali, sale d’aspetto e ascensori. Si tratta in poche parole delle aree in cui gli individui si incrociano senza entrare in relazione gli uni con gli altri. Sono zone di passaggio e di solitudine. Transitiamo tutti i giorni nei non-luoghi, ma nessuno vi abita.
La scrittrice sudafricana Nadir Gordimer[2] afferma che un clandestino è uno che non ha il permesso di soggiornare in un paese. È una persona che non si sente appartenere a nessun luogo perché non ha un’identità da rivendicare. Vive su una soglia. E’ una «non persona», senza una casa.
Avere una casa diventa la priorità per sentirsi parte di un qualcosa che ci fa sentire vivi e importanti, che ci fa sentire parte di qualcosa e che ci fa esistere.
Gabbia che rinchiude o luogo libero e terapeutico?
La casa però può essere “luogo sicuro” ma anche, in talune situazioni, gabbia che rinchiude: questo accade quando i muri fisici diventano anche muri relazionali, che dividono dentro e fuori creando distanza ed isolando; quando diventano luoghi nei quali si vorrebbe scappare da un’appartenenza che non si riconosce più. In questi casi occorre trovare nuove “case” da abitare e alle quali appartenere. Si pensi ad esempio a chi vive condizioni di violenza e maltrattamento intrafamiliari e necessita quindi di essere messo in protezione.
L’affidamento e l’accoglienza familiare diventano, ad esempio, un modo per ridonare una casa e quindi degli affetti a minori, adulti, anziani che si trovano senza un contesto di vita e di relazione che permetta loro una buona qualità della vita. In queste situazioni diventa essenziale trovare nuovi ambienti terapeutici che sostituiscano quella casa che più non cura (o mai ha curato) sostituendola con una di cui sentirsi parte, che crei nuovi legami che scaldano il cuore e lo facciano pulsare di vita.
[1] Petrosino, Stefano, Sul senso filosofico dell'abitare, in Danani, C. (ed.), I luoghi e gli altri. La cura dell'abitare, Aracne editrice, Ariccia 2016, pp. 147- 160
Assistente Sociale piemontese, laureata in servizio sociale, in seguito conseguito un Master universitario di secondo livello in “Affido adozione e nuove sfide dell'accoglienza famigliare” presso l’Università Cattolica di Milano. Ha lavorato presso il CISS 38 di Cuorgnè (TO) dal 2001 al 2009. Da anni opera all’interno dell’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII per la quale è referente dell’Ambito Minori e Affidamento e partecipa al Tavolo Nazionale Affido. Dal 2010 è facilitatrice e formatrice di gruppi di Auto Mutuo Aiuto per famiglie affidatarie. Con suo marito è genitore affidatario dal 2006.
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