La comunicazione efficace: strumento di umanizzazione

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La comunicazione efficace: strumento di umanizzazione

La comunicazione come strumento di lavoro per attivare interventi efficaci. Cultura della relazione: processo di integrazione emotiva con il paziente. Modello formativo: adesione consapevole e messaggi bidirezionali.

Un’esperienza difficile

L’ospedalizzazione costituisce per il malato un’esperienza spiacevole, per questo è importante che la degenza sia la più efficace e, compatibilmente con lo stato clinico, la più breve possibile. Lo sradicamento dai luoghi e dai contesti di vita, l’ingresso in una nuova struttura omologante e, per molti aspetti, spersonalizzante, rappresenta una condizione di disagio, poiché è estremamente difficile accettare che ospedale e malattia diventino quotidianità.

«È richiesta l’attivazione di un processo di integrazione emotiva che, dalla fusione delle proprie emozioni, quelle del curato e le abilità cognitive, generi strategie comportamentali produttive, sia per la dirigenza che per il cliente» 

Le abilità metacognitive nella relazione con il paziente

Proprio per queste ragioni, stabilire da parte dell’équipe curante una relazione positiva ed armonica con il paziente e con i suoi famigliari, diventa indispensabile, in quanto, terapia e cura, intersecandosi in modo inscindibile, si trasformano in relazione, fino ad incidere sulla stessa qualità e sull’esito della presa in carico.

Porre attenzione, dunque, alle abilità metacognitive, che connotano inevitabilmente i processi di cura, favorisce un corretto stile comunicativo operatore-paziente, ne attenua le ridondanze, mitigando l’insoddisfazione del cliente relativamente al suo vissuto di degenza. (R. Buckman, “Breaking bad news: why is it still so difficult?”, BMJ 1984; www.salute.gov.it, 2020). 

La cultura della relazione come abilità professionale

A questo proposito, torna utile la riflessione proposta da Pierpaolo Donati circa la caratterizzazione del lavoro sanitario come oggetto di crescente mercificazione, intendendo la tendenza, sempre più spinta, a concepire i servizi di welfare e le prestazioni da essi fornite, come delle merci, quindi, legate ai criteri del mercato competitivo.

Per Donati, occorre de-mercificare il welfare, ovvero «costruire sistemi di azione che offrano delle modalità di intervento le quali, pur incorporando delle prestazioni funzionali, mirino a generare azioni condivise che si configurino come buone pratiche, le quali hanno delle precise risorse relazionali nelle dimensioni valoriali e normative» (La qualità del welfare, presentazione 2° Convegno Internazionale sui servizi sociali, 2008). Non tenere conto di questi parametri, rischia di rendere concreto il paradosso che Ivan Illich, nel suo saggio “Esperti di troppo”, prefigura per le professioni di aiuto: che diventino “professioni disabilitanti”.

Dare maggiore importanza al fare piuttosto che agli aspetti relazionali, sacrificandoli o, comunque, relegandoli, in spazi residuali o centrati su requisiti formali, parafrasando ancora Illich, comporta il rischio di un coinvolgimento dei soggetti interessati secondo un modello di partecipazione essenzialmente di facciata, che implica un riconoscimento solo formale ed occasionale della titolarità dei diritti di cittadinanza.

Manca, dunque, nei servizi sanitari la cultura della relazione, che non è solo un concetto sociologico, bensì una competenza da acquisire. L’operatore, nell’esercizio del suo ruolo, deve essere attento ai bisogni e consapevole delle esigenze relazionali dei clienti; mediante capacità di osservazione e di ascolto empatico e riflessivo.

È richiesta l’attivazione di un processo di integrazione emotiva che, dalla fusione delle proprie emozioni, quelle del curato e le abilità cognitive, generi strategie comportamentali produttive, sia per la dirigenza che per il cliente. (P. Russo, 2019). 

Il modello formativo

La servant leadership, nella sua applicazione in sanità, è lo stile direzionale che meglio sposa gli orientamenti relazionali, in quanto propone un modello formativo, basato sulla relazione, comunicativo, accogliente, che veicola la percezione per il paziente di aver trovato il luogo giusto.

È uno stile che richiede un percorso programmato, multidisciplinare, che non può basarsi su un passaggio unidirezionale di informazioni standardizzate, di norme comportamentali dettate dall’esperto, bensì, per l’attivazione di messaggi bidirezionali, che sollecitano interazioni e feedback di risposta.

È così possibile trasformare un’informazione scientificamente fondata, in un messaggio personalizzato, che sollecita le determinanti emotive, oltre che cognitive, tale da rendere fattibile l’adesione consapevole del paziente al progetto di cura, secondo una prospettiva maggiormente incentrata sulla responsabilizzazione e sulla tutela dei diritti individuali.

Tale stile di lavoro richiede certamente un maggior investimento di risorse, non solo economiche, e si abbina ad una riscoperta del significato primario della cura in quanto la responsabilità della decisione, e delle conseguenti coerenti azioni attuative eticamente orientate, si fonda con la disponibilità e la motivazione ad aiutare e ad essere aiutati, dando vita ad un processo virtuoso. (G. Sarchielli, 2015)


Se sei interessato a raccontare la tua esperienza o le tue riflessioni di assistente sociale siamo lieti di pubblicare un tuo articolo sul nostro blog. Per maggiori informazioni contatta la dott.ssa Serena Vitale (redazioneblog@progettofamiglia.org)
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