Cosa vuol dire “dare un volto umano” ai servizi?

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Cosa vuol dire “dare un volto umano” ai servizi?

Ridare un volto umano: persone e non persone, spirito e corpo. Operare tenendo conto del volto dell’altro: life planning e narrazioni. Welfare umano: vision e mission.

Adempiere alle disposizioni o salvaguardare il benessere?

La crisi economica, finanziaria e sociale, il crescente tecnicismo nella gestione ed organizzazione dei servizi e l’eccessiva burocratizzazione del sistema di welfare rischiano di trasformare molti Assistenti Sociali in funzionari che applicano norme e procedure, esercitano la loro discrezionalità solo per adempiere alle disposizioni ricevute o per distribuire prestazioni piuttosto che salvaguardare il benessere della persona e della comunità. Tutto ciò a discapito della natura relazionale del lavoro sociale.

«Un welfare dal volto umano è un sistema di istituzioni a protezione della persona»

L’uomo e i servizi

Dare o ri-dare un volto umano ai servizi significa prendere in carico la persona come entità poliedrica, come realtà unica ed originale, come espressione della compenetrazione delle sue dimensioni costitutive che ne determinano ogni azione ed ogni pensiero. 

Far proprio il tentativo di sintesi di Emmanuel Mounier e riconoscere che l’uomo è espressione concreta dell’unione tra spirito e corpo, situato in un contesto spazio-temporale definito, in cui si conosce e si costruisce perennemente[1]. É un’anima-incarnata, come più volte affermato da Edith Stein, inoggettivabile ed indivisibile e come tale, vive l’esperienza della sofferenza e della fragilità sia nel corpo che nell’anima[2]. 

Vuol dire altresì salvaguardare l’essere umano da qualsiasi riduzionismo, misconoscimento e strumentalizzazione che ne lede la dignità, l’integrità e la libertà e che, sempre più spesso, giustifica la classificazione del genere umano in persone e non-persone[3]. 

Una risposta possibile

Per trovare una risposta al quesito in oggetto possiamo far riferimento alle riflessioni di Emmanuel Lévinas e alla sua filosofia del volto.

Parafrasando il pensiero di uno dei più grandi filosofi del Novecento, porre la persona al centro dell’attività professionale si traduce nell’operare tenendo presente il volto dell’Altro perché è un’esperienza penetrante che cancella ogni tentativo di oggettivizzazione o categorizzazione del pensiero[4]. 

Esso rappresenta il presupposto della relazione, in quanto, essendo caratteristica unica di ogni persona, è ciò che dell’Altro rimane impresso dopo averlo spogliato di ogni riferimento, dopo aver operato qualsiasi comparazione e classificazione. Rapportarsi con la persona tenendo nella mente e nel cuore il suo volto, consente di riconoscerne la sacralità, di percepirla come un limite invalicabile e come un vincolo indissolubile che impongono al professionista di interrogarsi continuamente e di riflettere prima di pianificare ed implementare un percorso di aiuto. Guardare o ricordare il volto spegne ogni potenza distruttrice ed accende quel senso di responsabilità che impone di programmare ed agire per e con l’Altro nel pieno rispetto della sua libertà di determinarsi e di realizzarsi[5].

Quello auspicato è un rapporto autentico, simmetrico da un punto di vista umano, nel quale l’assistente sociale rinuncia alle pretese di detentore di verità assolute, si oppone ad ogni forma di potere dato dal suo ruolo e dalle sue funzioni. Si mostra, dunque, nella sua umanità, fa delle sue abilità e delle sue competenze professionali strumenti di life planning e si apre all’ascolto delle “narrazioni” per individuare insieme alla persona le risorse utili al processo di fronteggiamento delle vulnerabilità nonché alla crescita personale, istituzionale e comunitaria. 

Creare e sviluppare servizi dal volto umano vuol dire intendere la relazione professionale come uno spazio di ascolto privilegiato in cui gli esseri umani coinvolti sono uniti da un interesse comune: dare compimento al divenire della persona in qualità di destinataria degli interventi.

La relazione di aiuto tra responsabilità e cura

Fornire un servizio dal volto umano per il professionista dell’aiuto implica assumersi la responsabilità della cura dell’Altro. Quest’ultima, sostiene Luigina Mortari, è una pratica che permette di procurare benessere all’Altro e contemporaneamente promuovere nello stesso le capacità di aver cura di sé e degli altri[6]. Essa va intesa nella sua triplice accezione:

  • come capacità di entrare nello sguardo dell’Altro per comprenderlo ed accoglierlo nella sua poliedricità.
  • come attività orientata all’Altro e finalizzata a rispondere coerentemente e con sollecitudine alla sua domanda di aiuto e metterlo nelle condizioni di provvedere da sé al proprio ben-essere.
  •   come pratica finalizzata a denunciare le ingiustizie sociali, a promuovere cambiamenti politici e legislativi per migliorare le condizioni di vita del singolo e della collettività.

Si può umanizzare il welfare?

Il sistema di protezione sociale si connota umano nel momento in cui esonera ogni persona da qualsiasi umiliazione perché capace di rimettere al centro della sua vision e della sua mission l’uomo e la sua dignità. 

Va da sé che un welfare dal volto umano è un sistema di istituzioni a protezione della persona. Come tale deve mettere i suoi operatori nella posizione di dare risposte coerenti ai bisogni, alle istanze, alle aspettative e ai desideri delle persone; perché promuove prestazioni personalizzate ed individualizzate attraverso pianificazioni ed implementazioni che tutelano il diritto di ogni soggetto alla propria identità, il diritto di partecipare attivamente alle decisioni e alle azioni che lo riguardano ed il diritto alla libertà di scegliere come stare al mondo.

 


[1] Cfr. Mounier. Emmanuel, Il personalismo, AVE, Roma, 1964, pp. 29-30.

[2] Cfr. Stein Edith, Essere finito e Essere eterno, Città Nuova, Roma, p. 394.

[3] Cfr. Engelhardt H.T., Manuale di bioetica, Il Saggiatore, Milano, 1991, p. 126

[4] Cfr. Lévinas Emmanuel, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano, 2006.

[5] Cfr. Ibidem, p. 219-220.

[6] Cfr. Mortari Luigina, La pratica dell’aver cura, Mondadori, Milano, 2006, p. 31.

Se sei interessato a raccontare la tua esperienza o le tue riflessioni di assistente sociale siamo lieti di pubblicare un tuo articolo sul nostro blog. Per maggiori informazioni contatta la dott.ssa Serena Vitale (redazioneblog@progettofamiglia.org)
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