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Consapevolezza di sé e cura dell’altro. Farsi scudo: sovraccarico e conseguenze. Compassione: rapporto tra eguali.
La consapevolezza di sè
Scoprire noi stessi, le nostre debolezze, è il punto di partenza per instaurare una relazione d’aiuto efficace. La conoscenza di noi ci permette di essere di supporto a chi, nei momenti di difficoltà, cerca aiuto. Grazie all’attitudine compassionevole del professionista, il dolore dei vissuti altrui diventa più leggero. Non dimentichiamo però che il professionista è per primo un essere umano con una storia.
«Prendersi cura degli altri implica la costruzione di un sistema che contempli il prendersi cura di sé stessi»
Il sovraccarico
Nel lavoro sociale la compassione è un elemento essenziale, implica un sentimento per il quale un individuo percepisce emozionalmente la sofferenza altrui desiderando di alleviarla. Il sovraccarico di questo sentimento comporta rischi per le professioni d’aiuto come quella degli assistenti sociali, psicologi, medici, educatori e operatori.
La conseguenza che ne deriva dal rendersi disponibili verso gli altri, dal comprendere gli altri, dal farsi scudo alle emozioni negative altrui e il dover preservare una buona immagine di sé anche quando non la si trova, è l’affaticamento da compassione.
Secondo Joinson, l’affaticamento da compassione provoca danni:
a livello fisico: come la bassa energia, problemi di sonno, problemi digestivi e problemi del sistema immunitario.
a livello emotivo: diventiamo irritabili, perdiamo di creatività e abbiamo meno voglia di divertirci.
a livello spirituale: abbiamo difficoltà morali per la fede.
L’essere compassionevoli
Il termine compassione deriva dal latino cum patior – soffro con - , è comunanza del dolore, è sentire il bisogno di essere connesso all’altro in momenti di difficoltà, ma ricordiamoci che il sintonizzarsi con gli altri è in primis un sintonizzarsi con sé stessi. E’ necessario entrare in contatto con la propria e desolante piccolezza di essere umani.
Quando stiamo bene, abbiamo la capacità di sentirci invulnerabili, illudendoci di poter avere la felicità eterna. La felicità fa bene, ci rinforza, ma è affrontando la propria angoscia e i propri dolori che si arriva a sviluppare sensibilità, capacità di ascolto, comprensione dell’importanza della presenza.
Il confronto con la parte più profonda del nostro sé, nel momento in cui lo condividiamo con l’altro risultano possibili autentici miracoli. La sfida dello stare insieme invece che competere l’uno con l’altro, produce il miracolo della vicinanza.
La compassione non è una relazione tra il guaritore ed il ferito. E’ un rapporto tra eguali. Solo quando conosciamo la nostra stessa oscurità possiamo essere presenti nel buio degli altri. La compassione diventa reale quando conosciamo la nostra comune umanità.
Il costo del prendersi cura
Porsi come strumenti nel reggere la sofferenza altrui, l’intensa cura da parte del professionista e l’identificazione con storie di vita che lasciano il segno, comporta un costo che si contraddistingue dall’affaticamento della compassione, cioè porta all’esaurimento emotivo.
Ogni professionista ha una soglia di fatica e questa soglia è abbassata dai suoi fattori intrinseci di rabbia, di solitudine, di perdite, di cambiamenti positivi e negativi.
Dobbiamo ricordarci che prendersi cura degli altri implica la costruzione di un sistema che contempli il prendersi cura di sé stessi. Il non prendersi cura di sé stessi può essere fatale. Dobbiamo riconoscere la nostra vulnerabilità, accettare le nostre debolezze, scoprirci per chi siamo davvero e come ripetiamo agli altri, ricordarci di chiedere aiuto.
Educatrice. Laureata in Scienze dell'Educazione presso Suor Orsola Benincasa. Laureanda in Scienze e Tecniche di Psicologia Cognitiva presso Suor Orsola Benincasa.
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