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Conoscere una realtà crudele sensibilizza l’animo e ci porta a ricercare la soddisfazione personale e professionale per le professioni dell’aiuto, nella cura del prossimo mettendo in discussione se stesso. Eccessiva compassione stravolge il proprio stile di vita, che si ritrova a vivere emozioni altrui come se fossero proprie. Essere luce nel cammino di chi soffre e chiede aiuto ha il suo prezzo. Agire senza ferire noi stessi è il modo giusto per sopravvivere nel mondo sociale.
‍Il costo della cura
Prendersi cura quotidianamente di persone che hanno storie di vita difficili, traumi e sofferenze può essere gratificante, ma allo stesso tempo può avere un profondo impatto sui professionisti. Provare sentimenti che innescano una forte sensibilità nell’altruismo mettono alla prova noi stessi, in quanto la nostra forza psichica e emotiva potrebbe non riuscire a reggere il peso.
Il professore di psicologia e salute mentale Charles Figley, fu uno dei primi ad affrontare la condizione della compassion fatigue o “fatica della compassione”, termine che è stato impiegato per definire uno stato di tensione e preoccupazione, una risposta al prendersi cura delle persone in tempi di crisi, caratterizzato da una sintomatologia che ricorda quella del Disturbo Post-traumatico da Stress (evitamento, pensieri intrusivi e alterazione negativa dei pensieri).
Dunque, una condizione di stress cumulativo che tende ad aumentare con il tempo, soprattutto se il professionista colpito ignora i propri sintomi e non soddisfa i propri bisogni emotivi.Â
Il trauma vicario invece, è una vera e propria compromissione della visione del mondo dell’operatore che ne deriva dal coinvolgimento empatico che si manifesta tra l’indole altruista del professionista e le vicende dolorose di cui viene a conoscenza attraverso il racconto dei suoi pazienti. Si manifesta una vera e propria trasformazione personale causata stesso dalla propria attività lavorativa.
Un altro aspetto che potrebbe manifestarsi in una condizione debole del professionista è il bornout che ha un maggiore impatto nell’equipe lavorativa, in quanto comporta una perdita di interesse nei confronti delle persone che devono ricevere attenzioni e cure togliendo lo sguardo dall’obiettivo lavorativo. Una persona in questo stato prova un continuo esaurimento nervoso e sperimenta una ridotta realizzazione personale, frustrazione e mancanza di gratificazione.
Compassion satisfing e coping
Come in ogni ambito lavorativo, anche in ambito sociale la gratificazione del proprio lavoro è un fattore che nutre il proprio operato. La soddisfazione è provare proprio un senso di realizzazione e ricompensa come risultato positivo derivante dall’ascolto verso vissuti difficili e traumatici altrui.
Da qui ne deriva la forza del professionista, il quale agisce con l’inconscia consapevolezza che l’intelligenza compassionevole migliora il nostro benessere psicologico per il semplice fatto che l’atto di dare da più piacere che il ricevere.
Per gestire il rischio di eccessiva compassione dovremmo ricercare il giusto equilibrio tra lavoro, svago e riposo. Basterebbe, ma non è semplice, imparare a tenere separate emotivamente le angosce del paziente e la propria soddisfazione professionale, capire quali sono i propri limiti accrescendo le informazioni sulla propria vulnerabilità . Per poter arrivare ad accettare il proprio operato, l’essere umano ha il bisogno di superare se stesso, di dare più di quanto fisicamente, emotivamente e psicologicamente può dare.
Educatrice. Laureata in Scienze dell'Educazione presso Suor Orsola Benincasa. Laureanda in Scienze e Tecniche di Psicologia Cognitiva presso Suor Orsola Benincasa.
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