Servizio sociale e conflitto: strategie distruttive o costruttive?

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Servizio sociale e conflitto: strategie distruttive o costruttive?

L’ambivalenza del conflitto: positivo e/o negativo. Il triangolo ABC del conflitto: atteggiamenti, comportamenti e contrasti d’interessi.

I conflitti

Il problema della potenziale distruttività dei conflitti, secondo Thomas Gordon, è il numero di conflitti non risolti ed i metodi impiegati per risolverli. Anche tale autore considera infatti i conflitti come una componente del tutto normale o fisiologica di tutte le relazioni.

«Risulta fuorviante pensare al conflitto come a qualcosa di negativo in sé, bensì è corretto definirlo positivo o negativo a seconda di come lo si utilizza»

Conflitti costruttivi e conflitti distruttivi

Sottolineando che i conflitti non sono né buoni né cattivi, Gordon afferma che tutto dipende dalle strategie usate per la loro gestione: se si usano strategie costruttive e si coopera per arrivare ad una soluzione condivisa da entrambi o per lo meno soddisfacente, allora il conflitto sarà stato positivo.

Se invece il conflitto implica collera, colpevolizzazioni, recriminazioni reciproche, critiche distruttive, etichette negative, allora non ci sono molte probabilità che si giunga ad una soluzione soddisfacente per entrambi gli interlocutori.

Le tre componenti

Secondo Johan Galtung, ogni conflitto presenta tre componenti, che vanno a costituire il cosiddetto “Triangolo ABC del conflitto” , e cioè:

  • Attitudes (A), cioè atteggiamenti;
  • Behaviors (B), cioè comportamenti;
  • Contradictions (C), cioè contrasti di interessi.

Secondo quest’autore norvegese, in un conflitto possiamo quindi sempre riconoscere un atteggiamento (ad es. di odio, sfiducia, risentimento) che un individuo nutre verso un altro, che può sfociare in un comportamento (ad es. sfida o anche violenza, sia verbale sia fisica) ed in un contrasto d'interessi, che a sua volta può produrre un vero e proprio blocco comunicativo tra le parti.

In casi come questi possono affiorare stati di scoraggiamento, perché le persone coinvolte in un conflitto non riescono ad intravedere una soluzione al problema.

La conseguenzialità del triangolo

Naturalmente, non è sempre detto che A determini B e B sua volta influenzi C, come se si trattasse di una sequenza fissa. Può ben succedere che il problema nasca da C (contrasto di interessi), che alimenta A (atteggiamenti di ostilità) ed infine B (violenza). Oppure che parta da B (atto di violenza), che ingenera un contrasto (C), che a sua volta si ripercuote su A, alimentando atteggiamenti di ostilità.

Questi elementi sono quindi parte di un tutto più ampio che costituisce il conflitto. Un conflitto può avere diverse cause o punti di partenza, ma ad ogni modo sarà sempre caratterizzato da questi tre elementi di base.

Positivo o negativo?

Da quanto detto, risulta fuorviante pensare al conflitto come a qualcosa di negativo in sé, bensì è corretto definirlo positivo o negativo a seconda di come lo si utilizza.

Conflitto positivo (o generativo): è tale se non sfocia nella violenza. La forma tipica del conflitto positivo è la discussione: due persone (o due gruppi sociali), riguardo un determinato fatto, assumono posizioni opposte. Esse si possono fronteggiare mediante un dibattito che li faccia giungere ad una posizione diversa rispetto a quella di partenza, oppure al riconoscimento che le loro prospettive non sono conciliabili e pertanto non ha senso continuare a discutere su quel punto. Anche nel caso in cui le due parti non trovano un accordo, il confronto avuto mediante la discussione ha condotto ad un esito parzialmente positivo: il riconoscimento della prospettiva, del punto di vista dell’altro. Nel conflitto positivo c’è sempre un riconoscimento dell’altro “come soggetto”, e presuppone quindi una dinamica relazionale sana, dove all’altro viene assegnato il mio medesimo valore.

Conflitto negativo (o degenerativo): non si riconosce l’altro come soggetto bensì come un ostacolo alla propria affermazione, e lo stile della comunicazione lo denota (le persone urlano o usano un tono di voce molto alto, si adoperano parole offensive che non riguardano l’argomento della discussione). All’interno del conflitto negativo si possono riconoscere almeno due dinamiche tipiche. La prima è generata da un non riconoscimento dell’altro in modo esplicito: affermo chiaramente la mia posizione e pretendo che l’altro faccia suo il mio punto di vista, perché ciò che sostiene il mio interlocutore non ha valore. La seconda dinamica, invece, è implicita, velata: gli interlocutori fingono di ascoltarsi, ma già hanno preso le loro decisioni: non metteranno mai in discussione le loro idee. Questo tipo di conflitti è il più pericoloso perché la rabbia non viene espressa né gestita ma solo accumulata (si aspetta il momento opportuno in cui ci si possa “vendicare” e scaraventare sull’interlocutore il rancore e l’irritazione sopita nei confronti del suo punto di vista). Nel conflitto negativo, dunque, l’altro non viene riconosciuto “come soggetto”, e la dinamica relazionale è tesa all’annullamento della diversità.

Conclusione

Possiamo dunque assegnare alla parola conflitto (dal latino “cum-fligere”, confligere, dove “cum” sta per “con”, urtare con, quindi un urto non unilaterale che coinvolge almeno due parti) una ambivalenza a seconda dell’atteggiamento mentale e relazionale di chi lo agisce.

Sarebbe interessante esaminare il suo ruolo nella coppia che si separa, il suo significato secondo l’ottica sistemica, e la sua potenziale fertilità qualora il processo di separazione venga accompagnato in un efficace percorso elaborativo proprio della mediazione familiare



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